Spesso è nella semplicità che si annida la perfezione.
Tuttavia, la strada per la semplicità alla volte può essere tortuosa e passare attraverso forme estreme di sperimentazione e ricerca, per poi tornare indietro, come in una sorta di gioco dell’oca, fino al punto di partenza.
A quel punto, tuttavia, la consapevolezza del metodo e la conoscenza dei processi costituiscono fondamenta solide che consentono di operare scelte semplici, sicure ed efficaci.
La storia che voglio raccontare oggi è quella di un appassionato di cibo e cucina che un giorno si innamora della pizza e dei lievitati (forse perché il nonno era fornaio..) e inizia un lungo cammino, una vera e propria Recherce..
Si, perché quella di noi amanti dell’arte bianca è una sorta di holy quest: siamo tutti un po’ come degli alchimisti, all’eterna ricerca della pizza filosofale, del modo di trasformare il grano in oro!
Così ne proviamo di tutti i colori alla ricerca di nuove sfide e nove frontiere.
Come si misura la qualità di un impasto?
Questa fu la prima domanda che mi posi.
All’epoca pensai che gli elementi da prendere in considerazione fossero almeno sei:
corretta miscela di farine, facilità di stesura, sviluppo in cottura, morbidezza e friabilità al palato, shelf life lungo per poter essere mangiata anche fredda o riscaldata, e infine digeribilità.
Parto dalla fine: la digeribilità.
Affinchè una pizza sia digeribile, occorre che il processo di lievito-maturazione sia perfetto, e che quindi da un lato le catene di proteine che compongono il glutine si siano scomposte, grazie all’enzima proteasi, in catene di amminoacidi, sia che le catene di amidi (ci torneremo) si siano scomposte in zuccheri semplici per effetto degli enzimi amilasi; sia, infine, che il lievito abbia “mangiato” zuccheri a sufficienza per poter produrre anidride carbonica e acido acetico (e/o lattico), che conferiscono all’impasto la caratteristica alveolatura e la giusta acidità.
Tutti questi processi sono agevolati da una lunga maturazione con l’uso del freddo. Ed infatti, poiché l’attività di lievitazione e più veloce di quella di maturazione (attività enzimatica), portando rapidamente l’impasto sotto i 4° la lievitazione rallenta fino quasi a fermarsi, ma la maturazione prosegue. Così, terminato il periodo di frigo, quando l’impasto torna a temperatura ambiente il lievito riprende la sua attività in una vera orgia di zuccheri!
Quando non digeriamo una pizza e diamo la colpa al lievito è perché l’impasto è poco maturo, il lievito non ha trovato cibo a sufficienza e continua a fermentare nel nostro stomaco alla ricerca di zuccheri! Ecco l’importanza di una giusta maturazione dell’impasto.
Usando tale tecnica, non si può prescindere, come base, da una farina di grano tenero piuttosto “forte” (almeno 300-320 W), che consenta al reticolo della maglia glutinica di resistere senza sfaldarsi alla lunga maturazione.
Per avere un prodotto che sia anche friabile, tuttavia, mi è sembrato necessario aggiungere una percentuale di grano duro, così da avere quella base sottilmente croccante che doveva differenziare la pizza che avevo in mente dalla classica verace.
Ma per avere un prodotto che fosse sì croccante alla base, ma anche soffice all’interno, mi sono ricordato della focaccia barese, in cui si inserisce nell’impasto una patata lessa.
Gli amidi!
E così ho aggiunto una piccola percentuale di maizena e farina di riso.
Per la giusta quantità di acido lattico ho aggiunto anche pochissimo lievito madre essiccato, a compensare l’acetico del lievito di birra.
Infine i grassi: banditi dalla verace, essendo romano e cresciuto con la teglia ritengo siano essenziali sia per il sapore e la consistenza che per la conservazione del prodotto.
Da questo punto di vista il migliore è sicuramente lo strutto, che nella giusta quantità dona friabilità al prodotto (in alternativa va benissimo l’olio EVO) ed evita la gommosità da raffreddamento, tipica conseguenza della retrogradazione degli amidi.
Tuttavia, sappiamo come i grassi siano per loro natura idrorepellenti, ossia tendono a non legarsi con l’acqua.
Esistono tuttavia in natura degli agenti, che sono detti “emulsionanti”, che assolvono alla funzione di fungere da “ponte” tra acqua e grassi affinchè essi si uniscano: sono le lecitine, di cui ad esempio è ricco il tuorlo dell’uovo.
Come emulsionante io ho scelto una piccola percentuale di lecitina di soia non OGM.
Ma non mi sono fermato qui, perché volevo che il mio impasto fosse una vera e propria “nuvola”, soffice e idratata, quasi impalpabile.
Così, un giorno, mi sono imbattutto nella tecnica cinese del water roux, o tang zhong, che mi ha consentito da un lato di ottenere, a parità di consistenza, un sorprendente aumento della capacità di idratazione dell’impasto, e dall’altro una grande sofficità dopo la cottura.
Ma come funziona?
Per capirlo dobbiamo fare un passo indietro.
Abbiamo detto che il lievito si nutre di zuccheri semplici. Essi non sono presenti se non in quantità piccolissime nella farina (circa lo 0,5%, ossia il necessario per fare da starter al lievito in attesa che inizi il processo amilolitico), il resto è prodotto dalla c.d. “idrolisi degli amidi”, grazie all’attività degli enzimi alfa-amilasi, beta-amilasi e gluco-amilasi.
Il primo scinde gli amidi della farina in zuccheri a catena più corta (destrine), il secondo le destrine in maltosio, il terzo il maltosio in glucosio, lo zucchero più semplice, che diventa la “pappa” del lievito.
Ma quali amidi sono soggetti al processo idrolitico? Certamente non tutti, altrimenti l’impasto sparirebbe.
In realtà sono solo quelli che vengono “danneggiati” durante la molitura, che costituiscono circa il 12-17% degli amidi totali; la differente percentuale dipende dalla “durezza” della carosside di frumento. Ecco perché, probabilmente le farine molite a pietra hanno una reazione diversa all’impasto rispetto a quelle molite a cilindri in acciaio: la frizione dei due materiali è infatti diversa e danneggia le molecole di amido diversamente.
Accanto alla molitura, tuttavia, esiste, ed è conosciuto in letteratura, un altro processo che rende attaccabili dagli enzimi amilolitici gli amidi, ossia la loro gelificazione, o gelatinizzazione.
Sono quindi due le condizioni in cui l’amido può essere aggredito dagli enzimi: quando è danneggiato e quando è gelificato.
La gelificazione degli amidi avviene attorno ai 65% in ambiente acquoso. E qui entra in gioco il water roux.
Ed infatti, a seconda del risultato che vogliamo ottenere, soprattutto in termini di spessore di alveolatura, prelevando una parte della farina (che può andare da un minimo del 2% ad un massimo del 30%, come nel pane tradizionale cinese), e gelificandola con una quantità d’acqua cinque volte superiore, si ottiene una specie di besciamella, o roux, in cui una quantità molto superiore di molecole di amido si sono unite con l’acqua.
Trasportando la tecnica nel mio impasto, dopo numerosi tentativi ho stabilito che la mia percentuale giusta di farina fosse tra il 3% ed il 5% sul totale, cui ho aggiunto cinque volte la quantità d’acqua.
In entrambi i casi ho detratto le due quantità (acqua e farina) dal totale della ricetta. Ad esempio, se voglio raggiungere una idratazione finale del 70% partendo da un chilo di farina, utilizzerò 50 grammi di farina e 250 grammi di acqua per il water roux, quindi mi resteranno 950 grammi di farina e 450 grammi di acqua.
Mentre si realizza e poi si raffredda, in frigo o in abbattitore, il roux, per dare all’impasto una texture più setosa consiglio di fare, con tutta la farina e tutta l’acqua rimanenti, un po’ di autolisi, tecnica che consiste nel mescolare acqua e farina (in proporzione che in questo caso sarà del 45-50%) fino a creare il reticolo glutinico ed ossidare i c.d. “gruppi tiolici” delle proteine della farina per trasformarli in “gruppi disolfurici”, rendendo così l’impasto più forte e lavorabile anche dopo lunga maturazione.
Poi si uniranno i due preimpasti con il lievito, quindi con il sale, infine si aggiungerà, a chiudere, lo strutto.
Questo è l’impasto filosofale, la fine della prima parte della mia ricerca.
Da quel momento, è iniziato il mio viaggio a ritroso.